V

La poetica del Goldoni nel «Teatro comico»

La famiglia dell’antiquario può indicare anche il bisogno di ripensamento e di giustificazione e di programma che proprio in questi anni, fra il ’49 e il ’50, il Goldoni soddisfa in alcune precisazioni sulla sua opera e sulla sua poetica. Anzitutto va calcolato in questo particolare momento di esame e difesa della propria opera e della propria matura e consapevole riforma[1] il Prologo apologetico della Vedova scaltra, scritto nell’ottobre 1749 in risposta alla insipida commedia La scuola delle vedove in cui il Chiari insieme saccheggiava la commedia goldoniana e ne faceva la satira e la critica.

In questa rapida difesa che Polisseno (lo pseudonimo arcadico del Goldoni) fa della commedia attaccata, in un dialogo con Prudenzio (prudente «riformator de’ teatri»), si devono notare, insieme al vivacissimo senso di fiducia e di gioia del proprio lavoro e all’esigenza dell’inventività (contro la tecnica per innesti e rifacimenti di tanto teatro settecentesco)[2], la notevole spiegazione delle inverisimiglianze accusate dal Chiari (far parlare italiano da tre personaggi stranieri!) in base al criterio della coerenza dei personaggi alla situazione in cui agiscono, al carattere che a loro si attribuisce. Dove il Goldoni mostrava di avere assimilato l’esigenza essenziale arcadica del verosimile, distinguendola però da ogni pedantesca e ingenua richiesta di piatta riproduzione della realtà. Cosí come nella Prefazione all’edizione Bettinelli del ’50, in un ampio discorso sulla propria opera inserito nella storia del teatro comico di primo Settecento (ricca e tutto sommato assai attendibile e acuta), egli mostrava di rivivere le ragioni e le intenzioni della riforma arcadica in una interpretazione personale che presuppone un’esperienza piú diretta di «mondo» e «teatro» (per adoperare i suoi termini precisi), i suoi maggiori «maestri»[3]. Egli punta infatti, pur nell’ossequio a generali criteri estetici e all’esempio degli autori migliori, sulla propria originalità («il particolar Genio dalla Natura stessa donato»[4]) a cui riconosce l’istinto che lo ha portato alla commedia e che, aiutato dalla tendenza generale del naturale[5], entro parole già esaltate dall’Arcadia, porta un senso piú pregnante di concretezza, di vita che testimonia anche la posizione piú avanzata del Goldoni come rappresentante della piú matura civiltà di metà secolo.

E si pensi in proposito come alla maggiore apertura della commedia alla vita – senza l’illeggiadrimento o la letterarizzazione piú tipica dell’Arcadia – corrisponda un senso piú energico ed intimo della stessa organicità (che spesso in Arcadia finiva per essere non piú che uno schema unitario) e un adeguato «stile» pure «semplice e naturale», una lingua di prosa (e alla prosa andrà la sua simpatia anche quando farà esperienze in versi) non aulica e non cruschevole, ché – come dirà nel 1761 nella Prefazione al I tomo dell’edizione Pasquali – egli venera e stima chiunque conserva la lingua letteraria del toscano illustre («una lingua che è quasi morta, poiché dagl’Italiani medesimi inusitata»), ma aggiunge: «Dio mi guardi che di ciò m’invaghisca; dovrei pensar a tutt’altro che a scrivere pel teatro e a dar piacere all’universale»[6].

Il Goldoni nel 1750 aveva dunque un’idea chiara ormai dei suoi propositi e della sua speciale interpretazione della riforma arcadica in modi piú moderni e piú aperti alla vita e alla speciale espressione teatrale[7], e proprio per meglio esprimere i suoi principi di poetica in maniera coerente al suo disprezzo per le pure esposizioni teoriche e al suo bisogno di parlare sempre in linguaggio teatrale, in forme non libresche e comprensibili per tutto il suo pubblico[8] (ed era qui che soprattutto egli inverava in maniera nuova ed originale certe esigenze vive soprattutto in alcune celebri pagine del Muratori), egli scrisse Il teatro comico, «commedia in commedia». Già nell’avvertimento al lettore il Goldoni puntualizza i motivi fondamentali della sua riforma:

In questa qualunque siasi composizione, ho inteso di palesemente notare una gran parte di que’ difetti che ho procurato sfuggire, e tutti que’ fondamenti su’ quali il metodo mio ho stabilito, nel comporre le mie Commedie, né altra evvi diversità fra un proemio e questo componimento, se non che nel primo si annoierebbono forse i Leggitori piú facilmente, e nel secondo vado in parte schivando il tedio col movimento di qualche azione.

Io perciò non intesi di dar nuove regole altrui, ma solamente di far conoscere, che con lunghe osservazioni, e con esercizio quasi continuo, son giunto al fine di aprirmi una via da poter camminare per essa con qualche specie di sicurezza maggiore; di che non fia scarsa prova il gradimento che trovano fra gli Spettatori le mie Commedie. Io avrei desiderio che qualunque persona si dà a comporre, in ogni qualità di studio, altrui notificasse per qual cammino si è avviata, perciocché alle arti servirebbe sempre di lume e miglioramento.

Cosí bramo io parimente, che qualche nobile bell’ingegno d’Italia diasi a perfezionare l’opera mia e a rendere lo smarrito onore alle nostre Scene con le buone Commedie, che sieno veramente Commedie, e non Scene insieme accozzate senz’ordine e senza regola; e io, che fin ad ora sembrerà forse a taluno che voglia far da maestro, non mi vergognerò mai di apprendere da chicchessia, quando abbia capacità d’insegnare.[9]

Occorre dire però che Il teatro comico non va considerato come puro e semplice documento di poetica, in quanto esso ha una sua vitalità, un suo movimento (il movimento piacevole, e tanto caro al Goldoni, della vita dei comici «avventurieri onorati», con il loro spirito estroso, le loro ripicche e la loro serietà professionale, la loro coscienza della dignità della loro arte e della loro vita[10]), e le idee «riformatrici» hanno un ben diverso vigore cosí affermate come sono da personaggi in azione, scaturite da una concreta tensione teatrale, in un concreto esempio di linguaggio comico, di verità di personaggi, cosí come i consigli del capocomico Orazio (voce saggia, comprensiva, ma capace di severità, come quella del Goldoni) circa la recitazione si esprimono cosí vivacemente sulle prove della commedia recitata, nelle battute errate della prima prova e nel procedere sicuro della nuova prova, in cui i comici mostrano di aver ben compreso il valore di quei consigli e di quei rimproveri. Singolarmente efficace è l’apertura della commedia con gli attori che arrivano ad uno ad uno per le prove e, mentre mostrano la loro umanità simpatica anche nelle loro bizzarrie (l’orgoglio della prima donna soprattutto), nel loro dialogo con Orazio rivelano bene quella condizione fra incertezza e paura per la difficoltà della nuova recitazione e dello studio necessario per interpretare una commedia scritta, la consapevolezza che «ora si è rinnovato il buon gusto» ed il piacere di partecipare a questo rinnovamento decisivo del teatro comico, come dice Placida-Rosaura nella scena 2 del iii Atto:

Se facciamo le commedie dell’arte, vogliamo star bene. Il mondo è annoiato di veder sempre le cose istesse, di sentir sempre le parole medesime, e gli uditori sanno cosa deve dir l’Arlecchino, prima ch’egli apra la bocca. Per me vi protesto, signor Orazio, che in pochissime commedie antiche reciterò; sono invaghita del nuovo stile, e questo solo mi piace.

E da quest’ultima dichiarazione della prima donna si dovrà partire quando si voglia precisare la direzione della polemica del Teatro comico, che si è rivolta, in nome del «semplice» e del «naturale», contro gli stanchi residui del secentismo, ma è concretamente appuntata contro la vecchia recitazione, i vecchi procedimenti ed i difetti di disordine, di ripetizione, di improvvisazione «senz’arte» che il Goldoni attribuisce in generale alla commedia dell’arte.

Da questa egli riprende i vecchi attori di cui apprezza l’esperienza ma li rieduca (attori dell’arte rieducati e non dilettanti «eruditi»), impone loro una nuova recitazione, un nuovo studio di compostezza, di approfondimento artistico-psicologico. Cosí egli ne riprende (come ha fatto piú scopertamente nel Servitore di due padroni) il piú puro giuoco scenico, ma lo adibisce ad una funzione tutta nuova di organica situazione, di coerenza umana e poetica. E se nell’opera di lenta educazione del pubblico si può indicare, oltre la prudenza (piú che la diplomazia) di chi ama operare nel concreto, e con il tipico spirito di «riforma» di tanto Settecento, l’attento procedere di uno scrittore che vuole distaccarsi da una vecchia forma d’arte conservandone ed inverandone certi elementi essenziali, sta di fatto che la meta del Goldoni era il superamento della commedia dell’arte nel suo insieme. Certo nel Settecento non mancarono forme di «regolarizzazione» degli scenari (e cosí operò il Goldoni stesso anche negli scenari con cui iniziò la sua difficile attività in Francia), ma in realtà esse rappresentano un tentativo sterile e solo indicativo come riprova della fine della natura piú dinamica e barocca della vera commedia dell’arte. Cosí (fissata e limitata quella che fu l’utilizzazione della commedia dell’arte da parte del Goldoni), si potrà dire che la stessa piú vivace satira di Lelio (il misero poeta comico che si presenta pieno di boria ad Orazio ed ai suoi comici per esserne deriso e rimproverato) è sí rivolta contro il suo linguaggio secentistico (Eugenio dirà appena lo sente parlare: «Piangere gli scanni, battere le mani ai palchi. Questo è un poeta del seicento»), ma questo linguaggio con le sue iperboli e antitesi è poi attaccato soprattutto perché tipico dei «repertori» o «generici» di cui si servivano i comici dell’arte e che Placida dirà di aver «tutti abbruciati» come fanno tutte le «recitanti», che «sono dal moderno gusto illuminate». E si noti che la satira del linguaggio secentistico non ha tanto valore come generica satira di una maniera poetica ormai cosí lontana e definitivamente superata (siamo nel 1750, ben lontani dal periodo in cui l’Arcadia iniziò la sua lotta contro il «malgusto»), quanto come satira di quel linguaggio in un campo preciso e circoscritto, quello del teatro dell’arte rimasto tanto arretrato rispetto al generale cambiamento della cultura e del gusto e non piú capace nel suo insieme di corrispondere alle esigenze moderne. E Lelio, il poetastro a cui Orazio rimprovera ignoranza e mancanza di serietà[11], non è solo il rappresentante di un linguaggio poetico superato, ma è anche scrittore di scenari sciocchi e slegati, immorali, non piú accettabili. Sicché la polemica del Goldoni, singolare per prudenza, concretezza, ma anche energia mentre vuol servirsi dei vivi strumenti teatrali costituiti dai comici dell’arte (ma rieducati) e vuole non perdere le qualità di movimento e di giuoco scenico della commedia dell’arte (operando la sua riforma senza mai perdere il contatto con il pubblico), si rivolge contro la commedia dell’arte nella sua forma integrale, ed al suo posto esalta una nuova commedia di «costumi e caratteri» a sfondo etico e realistico e dotata di quelle qualità di organicità, verisimiglianza, naturalezza che egli, con tanta maggior forza dei riformatori arcadici, fa corrispondere ad un senso profondo di espressione poetica e teatrale della vita. Che cosa dirà infatti Anselmo-Brighella a Lelio?

Quando le commedie son deventade meramente ridicole, nissun ghe abadava piú, perché col pretesto de far ridere, se ammetteva i piú alti, i piú sonori spropositi. Adesso, che se torna a pescar le commedie nel mare magnum della natura, i omeni se sente a bisegar in tel cor, e investendose della passion o del carattere che se rappresenta, i sa discerner se la passion sia ben sostegnuda, se el carattere sia ben condotto e osservà.

E all’osservazione del meravigliato Lelio («Voi parlate in una maniera che parete piú poeta che commediante») egli risponde:

Ghe dirò, patron. Colla maschera son Brighella, senza maschera son un omo che, se non è poeta per l’invenzion, ha però quel discernimento che basta per intender el so mistier.[12]

E se il Goldoni nella breve commedia che viene rappresentata dai comici (proprio per mostrare nel suo vivo spaccato medio l’opera concreta di riforma: passaggio dalla commedia dell’arte a quella moderna in una educazione graduale del pubblico e dei comici) si serve di una commedia solo a metà scritta e con parti a soggetto, e conserva ancora le maschere – ma sempre piú trasformate intimamente in personaggi – ciò non esclude che la sua meta sia una commedia tutta scritta e tutta nuova in cui il comico delle maschere e del giuoco scenico e della vivacità improvvisata del dialogo siano non perdute, ma fuse e superate al punto che sarà vano e sofistico lavoro (una volta accertata l’esistenza di questo rapporto) ricercare, come han fatto alcuni critici, nelle commedie mature del Goldoni le tracce di una tecnica e di uno spirito teatrale che egli ha interamente assimilato per quel tanto che gli serviva e profondamente superato. E sarà ugualmente condannabile il tentativo di recitare Goldoni alla maniera della commedia dell’arte, riportandolo dentro una forma da cui egli era uscito assimilandone elementi e superandola in un’opera di cui qui chiarisce assai minutamente le nuove condizioni storiche ed artistiche.

Sicché mentre egli indica in una battuta di Orazio le complesse esigenze della nuova commedia (la sua commedia in contatto con il gusto contemporaneo) e le sa distinguere persino dallo stesso ammirato modello francese molieriano –

Un carattere solo basta per sostenere una commedia francese. Intorno ad una sola passione, ben maneggiata e condotta, raggirano una quantità di periodi, i quali colla forza dell’esprimere prendono aria di novità. I nostri Italiani vogliono molto piú. Vogliono che il carattere principale sia forte, originale e conosciuto; che quasi tutte le persone, che formano gli episodi, siano altrettanti caratteri; che l’intreccio sia mediocremente fecondo d’accidenti e di novità. Vogliono la morale mescolata coi sali e colle facezie. Vogliono il fine inaspettato, ma bene originato dalla condotta della commedia. Vogliono tante infinite cose, che troppo lungo sarebbe il dirle, e solamente coll’uso, colla pratica e col tempo si può arrivar a conoscerle e ad eseguirle[13].

– d’altro canto egli rappresenta nel concreto esempio delle prove della commedia nel nuovo modo di recitare, disinvolto, semplice e naturale come il linguaggio, le linee fondamentali del suo ideale comico, legato alla generale riforma arcadica, ma, come abbiam detto, tanto meno libresco, tanto piú aperto alla vita ed artisticamente tanto piú attento alla efficacia e al vigore che non alla semplice chiarezza e regolarità di esterno disegno. Infine, all’altezza del Teatro comico e del suo chiaro e sicuro programma di commedia di «carattere» (di «caratteri» inseriti in un «ambiente» e capaci di creare un «ambiente»; l’uno e gli altri reali, moderni e naturali), si può meglio comprendere il cammino dell’attiva riforma goldoniana nei confronti della utilizzazione e del riassorbimento delle «maschere» fino alla loro scomparsa entro personaggi vivi e individuati nella loro irrepetibile e particolarissima realtà.

Le maschere avevano fornito inizialmente al Goldoni una prima gamma di tipi e caratteri comici che egli aveva ben presto arricchito e approfondito nella contemporanea ricerca di connotazioni sociali ed umane atte a indirizzare le forme delle maschere, soprattutto veneziane (in primissimo luogo Pantalone), verso una loro funzione di raccordo fra un mondo comico popolare e tradizionale e prospettive nuove di rappresentazione e critica della società veneziana contemporanea, mentre egli riprendeva e ricreava personaggi come Momolo «cortesan» (il tipo dell’avventuriero «onorato», spregiudicato, libero, inventivo, ma insieme sostanzialmente giudizioso ed attivo nel risolvere per il meglio le piú intricate situazioni) dalla sua esperienza del «mondo» e portava maschere e personaggi nuovi ad una dimensione media di continuità e riconoscibilità di tipi e di mobilità e novità di caratteri individuali.

Cosí il «cortesan» introduceva nel mondo tradizionale una carica di maggiore spregiudicatezza, di intelligenza, di vivace ragionevolezza, di critica di stanche forme di grettezza e di convenzione. Cosí Pantalone diventava, con ricca sfaccettatura di senile saggezza e pur di inclinazione alle tentazioni e alla dissolutezza, vivo rappresentante di una società mercantile presa fra l’adesione a criteri di reputazione e di onore, di conservazione di vecchi costumi, e la tentazione di un uso edonistico, fastoso e vizioso, della propria forza economica, fino alla crisi del fallimento e della bancarotta. Mentre le maschere degli «zanni» (Arlecchino in testa) portavano sulla scena la vivacità comica di personaggi delle classi popolari nel loro rapporto di critica e di connivenza con i loro padroni e questi venivano sfaccettati nel complesso mondo di pretese e di affermazioni della classe nobiliare (specie quella squattrinata e presuntuosa della piccola nobiltà dei «barnabotti») e della classe borghese in gara di lussi e di mode con la società aristocratica, e (in una dimensione meno chiaramente caratterizzata socialmente) le vecchie maschere degli innamorati come Florindo e Rosaura, o quelle dei pedanti e maniaci, o quelle degli smargiassi vili e paurosi (da una parte il Dottor Balanzon, dall’altra i vari «capitani» della commedia dell’arte) entravano anch’essi nel giuoco comico e nella rappresentazione comica della realtà umana e socievole con la loro iniziale riconoscibilità tradizionale e il loro nuovo arricchimento realistico ed individuale.

Ma quanto piú il Goldoni si addentrava nella rappresentazione comica e poetica della realtà contemporanea e nell’approfondimento di individuati caratteri socialmente e umanamente rappresentativi, l’appoggio di costruzione e l’ausilio di riconoscibilità che i suoi personaggi ricavavano dal loro riferimento esplicito o implicito alle maschere, venivano a perdere di necessità ed anzi a costituire un margine di inverisimiglianza e di fissità che doveva essere totalmente dissolto come un’impalcatura e un traliccio provvisori e ormai ingombranti.

La vitalità teatrale delle maschere veniva a poco a poco riassorbita tutta nei personaggi e nel loro movimento psicologico e scenico organicamente motivato da azioni e moventi coerenti ed autonomi dalla favola fissa e ripetitoria della commedia dell’arte, mentre la rappresentazione di una società «a piú livelli di classe», di cui il Goldoni sempre meglio intuiva il movimento interno serio-comico, i conflitti e gli attriti, le affermazioni di crescente libertà e ragionevolezza (con possibilità di conversioni e funzioni di «cavalieri di buon gusto», di contrapposizioni di generazioni e di atteggiamenti entro la società e il nucleo familiare borghese e nella stessa vita popolare, esaltata nella sua schiettezza e sincerità e sanità e pur bisognosa di un ammonimento e di un intervento di superiore cultura ed educato buon senso), sempre piú rifiutava gli schemi fissi e rigidi delle maschere. Sicché a un certo punto diventa vano esercizio «a ritroso» andare a ricercare nei concreti personaggi della commedia goldoniana matura la traccia delle maschere e magari la sfaccettatura della vecchia maschera di Pantalone nei quattro rusteghi.


1 Che non è dunque «mito giovanile», ma anzi coscienza matura del proprio valore e della propria missione teatrale. E non importa se poco profonda, approssimativa nella precisa valutazione critica della propria intima natura poetica: Goldoni non è un «critico», ma non è neppure un poeta inconsapevole della sua forza e del suo fine essenziale.

2 Cosí alla fine del Prologo Polisseno se ne va «di furia» al suo tavolino a scrivere la sua commedia perché cosí vuole rispondere concretamente alle accuse dei nemici con altro lavoro («Fo il mio dovere e aspetto di piè fermo nell’arringo il nemico», Opere, ed. cit., vol. II, Milano 1936, p. 414). E contro il Chiari raffazzonatore di cose altrui il poeta griderà: «Facile inventis addere. Ma inventare, creare, hoc opus, hic labor» (Opere, ed. cit., vol. II, p. 409).

3 Opere, ed. cit., vol. i, p. 769.

4 Opere, ed. cit., vol. i, p. 763.

5 «Piú di tutto m’accertai che, sopra del meraviglioso, la vince nel cuore dell’uomo il semplice e il naturale» (Opere, ed. cit., vol. i, p. 767).

6 Opere, ed. cit., vol. i, p. 627.

7 Alla lezione del Momolo e del Teatro sono dedicate notevoli pagine (Opere, ed. cit., vol. i, pp. 769-770).

8 E come piú volte il Goldoni insiste sul suo contatto con il pubblico, sulla sua attenzione ai gusti del pubblico! E se ciò indica un limite del «poeta di teatro» che a volte scambia il successo con la sanzione piú alta della propria opera, è pure caratteristico per il forte impegno del Goldoni nel proprio tempo, nel presente, nella sua collaborazione con una precisa società che solo davvero lo interessa.

9 Opere, ed. cit., vol. ii, p. 1045.

10 Ed è già questo uno dei punti che il Goldoni si proponeva di affermare nel Teatro comico per respingere le prevenzioni diffuse contro i comici e la loro immoralità, mostrandoli invece «uomini sensibili, onesti, e civili». E si ricordi la polemica del Maffei contro il rigorista padre Concina.

11 Il Teatro comico è anche una lezione contro il dilettantismo, una esaltazione della dignità della professione di poeta e di attore. Quando Lelio, vista la impossibilità di far accettare la sua opera di autore, si offre come attore, Orazio, sdegnato, gli risponde: «Voi vi esibite per comico? Un poeta che deve essere maestro de’ comici, discende al grado di recitante? Siete un impostore; e come siete stato un falso poeta cosí sareste un cattivo comico. Onde rifiuto la vostra persona come ho le vostre opere già rifiutate; dicendovi per ultimo che v’ingannate, se credete che i comici onorati, come noi siamo, diano ricetto ai vagabondi» (Atto II, sc. 3).

12 Il teatro comico, Atto ii, sc. 1.

13 Il teatro comico, Atto ii, sc. 3. Dove si potrebbero distinguere notevoli indicazioni di accordo con precisi motivi della riforma arcadica (ad es. l’esigenza del finale inaspettato, ma bene originato, che è simile a quella di tutti i riformatori arcadici quando parlano del sonetto con il finale non ad effetto come nel Seicento, ma non «lonzo», come diceva già il Redi, cioè non snervato e fiacco) e indicazioni di una distinzione dalla pura commedia di «carattere» in senso molieriano, suscettibile di sviluppi assai interessanti nella definizione della stessa coscienza critica del Goldoni.